Uhm! Una mattina di fine ottobre mi sveglio alle sei a Dar-es-Salam, città principale e baricentro
economico della Tanzania. È una domenica dal caldo insopportabile, di quelle in cui la pelle si
appiccica subito ai vestiti per effetto della coltre di umidità che risale dalle tiepide acque
dell’Oceano Indiano sin dal primo mattino. Se il termometro avesse segnato qualche grado in più,
ne sono sicuro, io e il mio amico Enrico avremmo desistito e ci saremmo arresi. Ma avevamo una
missione da compiere ed eravamo determinati a portarla a termine.
Entrambi donatori presso l’Avis Comunale di Scicli, la nostra agenda di Google segnava per quella
domenica un appuntamento alle 11:00 con i miei colleghi del MPANGO WA TAIFA WA DAMU
SALAMA, il Servizio Trasfusionale Nazionale della Tanzania, per visitare il loro laboratorio,
prendere un caffè insieme e, forse, donare il nostro sangue. La macchina a noleggio, in condizioni
pietose e già sul punto di disintegrarsi dalla sera prima, decide di accasciarsi a bordo strada con una
gomma forata (probabilmente da qualcuno con un coltello la notte prima). Un amico appena
conosciuto in strada si offre di ripararla, ma non c’è tempo! Grondanti di sudore sotto il sole,
lasciamo gli altri compagni di viaggio alle prese con il cambio gomme e chiamiamo un tuc-tuc con
Bolt, che per pochi spiccioli ci infila dentro una delle stradine polverose che si diramano da una
sorta di autostrada che attraversa tutta la città.
Dove meno ce lo saremmo aspettati, in mezzo a venditori ambulanti di frutta e a bancarelle che
propongono qualsiasi articolo possa risultare utile in strada, ecco un edificio a due piani di tutto
rispetto con un ampio parcheggio e un cancello con due guardie. Ad accoglierci ci sono Judith,
vestito rosso sangue, e Kizito, camicia viola scuro e pantaloni. “KARIBU!” ci dicono. È la versione
in swahili di “benvenuti”, traducibile in realtà esattamente come il “prego” in italiano e valido
praticamente in qualsiasi contesto. Subito entriamo in un ambiente familiare, con il personale di
segreteria che ci saluta, le infermiere alle prese con il lavoro in sala e i colleghi medici che ci
mostrano la struttura e ci informano sull’organizzazione del Servizio Trasfusionale tanzano.
Con stupore ci rendiamo conto di essere gli unici
donatori della mattinata. “È domenica” – ci dicono – “di solito saremmo stati chiusi, ma per voi
abbiamo fatto un’eccezione”. In sala donazioni, avvolto ancora dalla plastica protettiva, un
separatore cellulare comprato da poco. “Abbiamo tante idee e voglia di fare” – dice Judith
accarezzando il macchinario con la mano – “ma ci mancano i fondi”. Il separatore, comprato con
tanti sacrifici da parte del governo, permetterà di raccogliere plasma e piastrine da utilizzare in
contesti d’emergenza. In una parte del mondo, quella dell’Africa subsahariana, in cui la mortalità
materno-infantile è altissima, le emorragie post partum rappresentano una delle principali cause di
morte. Il sangue e i donatori, in un posto come questo, sono sempre scarsissimi rispetto alle reali
esigenze del Paese.
Entriamo in un laboratorio piccolo piccolo ma molto pulito e ordinato, dove le sacche donate
vengono lavorate, conservate e validate dagli esami di laboratorio. Sembrerebbe di essere nello
scantinato di una qualsiasi villetta ragusana e invece siamo nel cuore del principale centro di
qualificazione biologica del sangue e degli emocomponenti del Paese. È qui che vengono svolti i
test sierologici delle principali malattie infettive trasmissibili con le trasfusioni. I test sono uguali a
quelli svolti anche in Europa, ma in Tanzania, come in quasi tutta l’Africa subsahariana, non
vengono eseguiti i test molecolari, ben più costosi ma alla base dell’elevatissima sicurezza del
sangue trasfuso nei nostri Paesi occidentali. Svolgendo esclusivamente i test sierologici, infatti, è
probabile che nelle prime fasi di un’infezione (il cosiddetto “periodo finestra”) il donatore risulti
ancora negativo a tali esami, pur potendo trasmettere la malattia tramite il sangue donato.
“Che succede dunque se trasfondete del sangue infetto?” è l’osservazione che rivolgo ai colleghi,
dettata sicuramente – a mia discolpa – da una curiosità fin troppo ingenua. “È rarissimo che capiti” –
risponde Kizito dopo aver lanciato una breve occhiata a Judith – “ma anche nei casi in cui dovesse
accertarsi un’infezione, avremmo salvato la vita di una persona. Il sangue, in Tanzania, è usato nelle
grandi emergenze, solamente nei casi in cui la vita del paziente è realmente a rischio da un
momento all’altro. Il poco sangue donato da quei pochi donatori è un farmaco salvavita nel vero
senso del termine”.
In posti come questo, mi rendo conto, il viaggiatore spensierato rischia di giudicare le cose con gli
occhi e il metro di giudizio di un occidentale. I colleghi, in realtà, svolgono il loro lavoro nel
migliore dei modi e con grandi competenze, sfruttando al massimo le risorse – sebbene limitate – a
loro disposizione, cercando di ottenere il maggior beneficio per i pazienti a fronte del minor rischio.
È facile, facilissimo, in un Paese come l’Italia, pensare che tutto sia dovuto, che ci siano risorse
illimitate, che la medicina sia infallibile. Ma la verità è che il mondo, la stragrande maggioranza del
nostro mondo, non funziona affatto così!
Tornando a noi, è arrivato il momento di donare! La donazione del sangue, in Tanzania, è consentita a donatori di qualsiasi etnia e nazionalità, dunque via con una colazione liquida con tanta acqua e bevande iper zuccherose dal vago sapore di ananas e mango e poi subito con il questionario, redatto in varie lingue locali, tra cui inglese e swahili, pieno zeppo di domande approfondite su abitudini, stili di vita e comportamento sessuale. “Quante mogli avete?” ci chiedono, in un Paese dove la poligamia è legale e praticata da buona parte della popolazione musulmana. Le domande, se vogliamo, sono spesso imbarazzanti e molto più dettagliate del questionario a cui siamo abituati in Italia. Il medico selezionatore le ripercorre insieme al donatore una per una e aggiunge a voce ulteriori domande più approfondite. “In assenza dei costosi test molecolari per le malattie infettive, ci basiamo molto sull’onestà di ciascun donatore. Il sangue va donato solo se ritenuto sicuro per chi dovrà riceverlo”.
Ci spostiamo in sala donazioni: dopo pochi convenevoli e risate incomprensibili nella lingua locale,
l’ago entra in vena e ci viene servito dall’infermiera un ulteriore concentrato di frutta e zucchero. In
una stanza con trenta gradi senza aria condizionata il timore è che la pressione possa precipitare da
un momento all’altro, ma i colleghi ci intrattengono per tutti i 7 minuti del prelievo di sangue intero
con una lezione d’infarinatura base di swahili. La mia parola preferita? Kuku, che vuol dire “pollo”!
Dopo il prelievo, con un bicchiere di succo alla mano e proprio quel pollo arrosto comprato dalla
bancarella di fronte, ci rendiamo conto che questa esperienza ci ha insegnato molto più di quanto avremmo mai immaginato. Il sangue donato è un ponte tra mondi diversi, un atto di solidarietà che
non conosce confini. Judith ci saluta con un forte abbraccio: “Ci sentiamo fra due settimane per la
consegna del referto della donazione!”. Sarà scritto e firmato a mano, ovviamente, e da ritirare di
persona poco prima del nostro rientro in Italia.
Dr. Giovanni Bonvento Fidone
Direttore Sanitario Avis Scicli