Un’auto corre a sirene spiegate nel traffico del Natale.

Non è della polizia e non è un’ambulanza. Sul cofano e sulla fiancata c’è scritto emergenza sangue. A pochi chilometri da lì un’équipe medica è in trepida attesa. La sala operatoria è pronta, c’è una vita in pericolo. I familiari del paziente sanno che quell’auto che arriverà – che deve arrivare presto, il prima possibile – può significare la salvezza del loro congiunto.

L’auto a sirene spiegate si fa largo nel traffico. Una sirena tra le tante di un pomeriggio frenetico. Le altre macchine rallentano, si spostano, lasciano passare. Ancora un po’ di strada e le sacche di sangue saranno a disposizione dei medici.

Ma adesso fermiamo quest’immagine.

E riavvolgiamo il nastro.

Torniamo indietro di qualche ora, magari di qualche giorno. Quel prezioso carico che forse salverà una vita: da dove arriva? Qualcuno di noi se lo è chiesto mentre l’auto a sirene spiegate gli sfrecciava accanto? Qualcuno ha per caso immaginato come, e dove, quel sangue e quel plasma sono stati raccolti e preparati così da diventare salvezza?

Qualcuno ha mai sentito parlare della tribù dei Salvavita?

I Salvavita in Italia sono una tribù di un milione e mezzo di donne e di uomini. Qualcuno dice che il loro numero sfiori i due milioni. Vivono tra noi. Non si fanno riconoscere con particolari simboli o segni sul viso o sul corpo. Qualcuno di loro può portare una spilletta alla giacca, ma bisogna proprio farci caso. Di solito sono persone gentili e disponibili perché sono abituate a pensare alla comunità con un senso di generosità che oggi, lo sappiamo, è cosa sempre più rara. Ma non danno particolare confidenza e non fanno mostra di sé. Sono tenute a un comportamento sobrio.

Con una frequenza che non è mai casuale, escono di casa al mattino presto, senza aver fatto colazione, e si dirigono in posti dove c’è qualcuno che li attende. Si fanno riconoscere, e poi si sistemano in apposite postazioni preparate per tempo. Qui delle figure in camice bianco gli applicano aghi e quel che serve per fargli lasciare ciò che ci si aspetta da loro: sangue e plasma.

Terminata questa operazione, i Salvavita salutano e se ne vanno. Rientrano nel mondo di tutti i giorni. Hanno un lavoro, una casa, un’occupazione come tante altre. Fanno sport o vanno in libreria, o tutti e due. Se capita di incontrarli, difficilmente si riesce a capire chi sono veramente.

Bisognerebbe scrutarli a lungo negli occhi e allora, forse, si potrebbe notare che c’è in loro una luce particolare. È la luce di chi ha appena salvato delle vite, ma non è un’operazione facile da fare, anche perché qualcuno – giustamente – potrebbe chiedere: che c’hai tu da guardare? E allora che si fa, mica gli si può dire: ma che per caso tu sei uno di loro, uno dei Salvavita? Probabilmente ci sentiremmo rispondere: scusa, ma non so di che parli.

Sì, perché i Salvavita tra di loro non si chiamano così, non fanno manifestazioni di piazza, e non vanno neanche in televisione, perché quelli della televisione non lo sanno mica della loro esistenza. Sono così occupati a parlare dei no-vax e a far litigare tra loro i politici e le star della scienza che non hanno tempo di invitare qualcuno come i Salvavita.

I plasmaderivati ottenuti dal plasma dei donatori consentono di curare migliaia di pazienti ogni anno

I Salvavita sono persone come noi. Forse un po’ meglio di noi. Pensate solo a quello che fanno: mettono il sangue (e il plasma) a disposizione di tutti. Un gesto la cui forza viene celebrata dalla lingua italiana con frasi che ci accompagnano per tutta la vita: “Ho dato il sangue per te!”;  “Ma che volete ancora da me, il sangue?”; “M’impegnerò fino all’ultimo sangue!”. E quante altre ce ne sarebbero, nella letteratura e nella poesia, per testimoniare il valore di una materia senza la quale la vita, per l’appunto, finisce.

 Torniamo all’auto che procede a sirene spiegate.

Quelle sacche che viaggiano verso l’ospedale hanno quest’origine. Sono il frutto di un gesto che una tribù poco conosciuta ma tutto sommato numerosa (due milioni di persone non son mica poche!) compie con regolarità donando appunto sangue e plasma.

Chi raccoglie ne ricaverà non solo sacche per le trasfusioni, ma molto altro: per esempio i plasmaderivati, medicinali che curano patologie spesso gravi e malattie molto serie.

Pare che molti Salvavita neanche lo sappiano a quante cose servono il sangue e il plasma che loro, regolarmente, si fanno tirar via. Del resto lo fanno perché ritengono giusto farlo. Non c’è ricompensa. Non c’è rimborso. Non c’è remunerazione alcuna.

In un mondo dove tutto ha un costo, dove spesso anche la gentilezza viene prezzata, i Salvavita danno il sangue senza riceverne niente in cambio. Ma proprio niente. Incredibile, vero? Inspiegabile, verrebbe da dire. Già, così inspiegabile che questo sentimento di stupore per qualcuno è diventato una domanda e subito dopo un’idea e infine un progetto: ma non sarebbe l’ora di mettere una qualche forma di concambio? Insomma, se tu mi dai qualcosa di così prezioso, io te lo riconosco concretamente.

La gratuità del dono a qualcuno dev’essere sembrato qualcosa di così incredibile, di così poco moderno si potrebbe dire, che da tempo un’eterogenea alleanza di “addetti ai lavori” sta lavorando per cambiare le cose: rimborsare il dono.

Ma un “dono rimborsato” non è più un dono, potremmo osservare. E infatti il disegno è semplice: si vogliono trasformare i Salvavita da donatori a prestatori d’opera, o per meglio dire a fornitori di materia prima. Dall’ambito del dono si passa a quello del mercato. E sul mercato chi ha più soldi prima o dopo vince, perché ha più potere di acquisto. Pardon, di rimborso.

Siamo sicuri che all’Italia convenga? Siamo sicuri che cambiare il dna a questa nostra speciale tribù sia una cosa positiva per la comunità nazionale?

Non sarebbe meglio tutelare i Salvavita e magari incrementarne il numero migliorando anche le strutture in cui fanno le loro donazioni? È una bella tribù, quella dei Salvavita altrimenti detti “donatori”. Una tribù che il mondo ci invidia.

La pandemia ci ha fatto molto male ma ci ha insegnato anche qualcosa, soprattutto in questo campo. Per esempio che generosità, solidarietà e senso di sacrificio possono ancora darci il senso di una comunità che di fronte alle emergenze sa trovare risorse straordinarie. I donatori italiani sono una di queste risorse.

E per ricordarlo cito due frasi dell’intervento di ieri del presidente nazionale Avis, Gianpietro Briola, uno dei capi riconosciuti della tribù dei Salvavita:

 “Tutelare il dono del sangue e degli emocomponenti significa vietarne non solo la retribuzione, ma anche il rimborso attraverso forme promozionali come buoni spesa, coupon carburante, sconti o altro ancora che puntano a mercificare un gesto nobile dal profondo valore etico, umano e sociale”.

 “Non possiamo tollerare un modello organizzativo apparentemente basato sulla gratuità delle donazioni, ma che in realtà gioca sull’equivoco della remunerazione/rimborso. Il plasma non può essere soggetto alla mercificazione, perché ciò significherebbe giocare al rialzo e cambiare le regole del sistema sanitario”.

L’auto che viaggiava a sirene spiegate nel frattempo è arrivata all’ospedale. Le sacche sono già in sala operatoria. Il paziente si salverà. Ma nessuno gli parlerà mai dei Salvavita. Non c’è lo spazio, non c’è modo, non ce n’è proprio il tempo.

Forse un giorno lui ne scoprirà l’esistenza e magari si chiederà se nella vita di tutti i giorni ne ha mai incontrato uno. Quel giorno, se i Salvavita esisteranno ancora e non saranno stati sostituiti da venditori di sangue e plasma, sarà bello andare a conoscerli. Per capire che sono persone come noi. Solo un po’ migliori.

(Di Luigi Carletti dal sito DonatoriH24)